Quando con i “plasmoni” non si cucinano biscottini, bensì il futuro...
Componenti elettronici ultraminiaturizzati al fosforene dall’alleanza italo-tedesca fra il “vituperio delle genti” e il “castello della pioggia”
Va subito detto che “plasmons” è un gallicismo o un anglicismo e che quello di cui parleremo in italiano si dice “plasmoni” (o “plasmioni”) di superfici elettroniche.
Occorre a questo punto ricordare che in fisica un gruppo di particelle cariche elettricamente in movimento si chiama “plasma” e che le particelle che lo compongono sono “plasmioni”, appunto.
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Un innovativo interruttore elettronico superveloce, basato sui “plasmoni” di superficie
Sfogliando con criteri selettivi il repertorio degli articoli che costituisce la base semantica del sito www.xlnews.info, mi sono imbattuto in un articolo di agenzia (nessun quotidiano lo ha tuttavia ripreso per commentarlo…) su in singolare ritrovato tecnologico scaturito dalla collaborazione fra il CNR e una università tedesca.
Si tratta di un interruttore elettronico superveloce, basato appunto sui plasmoni di superficie.
Le due espressioni usate nel catenaccio indicano rispettivamente la sede dell’istituto di ricerca sulle nanoscienze del Consiglio Nazionale delle Ricerche (“vituperio delle genti del bel paese là dove il sì suona”, è l’etichetta usata da Dante Alighieri per definire la città di Pisa…) e quella dell’università (“castello della pioggia” è la traduzione letterale del nome “Regensburg”) della città che un tempo in lingua italiana si chiamava di Ratisbona.
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Serve accendere, ma soprattutto spegnere, il “Mare di Fermi” nei metalli del Gruppo 4
L’articolo spiega che cosa sono i “plasmioni” e come possono essere usati per ottenere l’effetto richiesto.
Per comprendere la situazione, occorre sapere che in fisica si chiamano “solidi” soltanto i corpi che hanno un reticolo cristallino, poiché altrimenti sono “fluidi ad alta viscosità” o “gel”: in questo senso quindi, ad esempio la ghisa non è un solido, mentre il rubino sì.
Occorre poi sapere che nei cristalli di quasi tutti i metalli e di alcuni semimetalli, specialmente del Gruppo 4 della tavola periodica degli elementi, gli elettroni più esterni di ogni atomo sono “in comune” nell’intero cristallo e formano una sorta di “mare”, che infatti viene chiamato “Mare di Fermi”.
Questo mare si muove tutto solidalmente in linea retta lungo un conduttore se si applica una tensione elettrica, ma può essere messo in movimento anche in forma di onde circolari, che si propagano sulla superficie come quelle di un sasso buttato nell’acqua.
Queste onde sono i “plasmioni”.
Il “sasso” ovviamente deve avere le dimensioni adeguate al “mare” e quindi essere costituito da un treno di fotoni ossia un fascio di luce di una durata molto corta e molto ben collimato, come quello che si ottiene da un laser a impulsi.
Il problema tecnologico da affrontare è il fatto che nei metalli il “Mare di Fermi” si muove con grande facilità e non si ferma se non quando la resistenza del conduttore ha riportato ogni elettrone al suo posto, ossia l’onda è facilissima da “accendere”, ma impossibile da “spegnere”.
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Un materiale simile al grafene, però basato sul fosforo, che commuta in femtosecondi
La soluzione che gli accademici hanno escogitato fra Pisa e Ratisbona è stata usare un materiale “bidimensionale” simile al grafene, ma basato sul fosforo (15P31) che si chiama per assonanza “fosforene”.
Siccome il materiale è semiconduttore, con un controimpulso di luce in questo caso è possibile arrestare la propagazione dell’onda e quindi “spegnere” il dispositivo risultante.
Dopo aver realizzato una serie di questi dispositivi, ne hanno misurato le caratteristiche, fra cui il tempo di accensione e spegnimento.
Le unità di misura osservate sono di alcuni femtosecondi.
Un femtosecondo, per rendere l’idea, è un miliardesimo di milionesimo di secondo (ah, la passione tedesca per la precisione delle misure…), ossia circa 10 milioni di volte più veloci del più veloce transistor noto, che impiega qualche centinaio di picosecondi (miliardesimi di secondo) per commutare.
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I due vulnus: laser a frequenze particolari di buona potenza e il rischio del… veleno
L’articolo sulla collaborazione fra il Centro Nazionale delle Ricerche e l’Universität Regensburg, fra Ratisbona e Pisa, tra la Baviera e la Toscana, è datato, poiché risale alla fine del 2017, ma dell’argomento non si è più sentito parlare.
A mio avviso, questo specifico dispositivo non diventerà mai applicabile a livello di consumo perché richiede laser a frequenze particolari di buona potenza e un materiale artificiale complicato da produrre e anche velenoso, però indica che la cosa è possibile e quindi occorre “soltanto” trovare un materiale adatto e un metodo compatibile con quel materiale.
Ci dice anche nuovamente che la ricerca di base e la collaborazione fra ricercatori producono sempre idee e a volte anche manufatti utili.
Ma questo concetto è troppo complicato per chi si occupa di bilanci pubblici e le apparecchiature necessarie (nonché la circolazione delle informazioni) eccedono le capacità dei privati, soprattutto comprese quelle finanziarie.
Un cul de sac che rischia di anestetizzare lo sviluppo tecnologico, con buona pace dei “plasmoni”. In questo caso amarissimi… Sul Säntis grazie al laser deviato per la prima volta un fulmine
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